I Cantù raccontano
Stefano Ticozzi, una figura singolare
Tratto da Ignazio Cantù, Le vicende della Brianza
Stefano Ticozzi, è un bel nome che speravamo di collocare fra gli illustri viventi, quando una repentina morte lo tolse alle lettere, alla famiglia, agli amici il 3 ottobre 1836. Nato a Pasturo, il 30 gennajo 1762, dal dottor fisico Ambrogio e da Giovanna Fondra, vestì l'abito clericale, fu laureato in teologia nell'università pavese, e subito eletto curato di San Giovanni della Castagna, terricciuola poco discosta da Lecco, dove attese con zelo alle onorevoli incombenze del suo ministero.
Ma al venir delle opinioni repubblicane, sorse a speranze, a desiderj, a fanatismi; fu de' primi a gridare gli evviva alla Francia, onde nel 1796 venne nominato segretario della municipalità di Lecco, senza che cessasse però dalle sue ecclesiastiche incombenze.
Cambiate le cose, nell'ultimo anno del secolo scorso, inteso come si era decretato il suo arresto, si pose in salvo con una fuga repentina in Francia, donde tornò col tornare fra noi delle armi repubblicane, e svestito l'abito sacerdotale fu mandato commissario in Lunigiana, Garfagnana, e poscia vice-segretario a Massa e Carrara. Fu qui che prese dimestichezza col poeta Labindo Fantoni, e che animato dall'accademia di scultura, acquistò quelle molte cognizioni del bello, segnatamente in oggetti di arti, di cui diede tante prove ne' suoi svariatissimi lavori.
E di questo sapere sono un bel testimonio le vite dei pittori Vecellj e quella del Morto da Feltre ch'egli scrisse a Belluno, dove era stato trasferito come segretario della Prefettura, e dove rimase fino al cadere del governo cessato, epoca del suo ritorno a Milano.
Durante questo periodo il curato Ticozzi prevalendosi della libertà, che concedeva la repubblica francese, aveva menata moglie ed avuti due figliuoli, una ragazza che diede qualche saggio di letteraria abilità, ed un figlio che promette di riuscire buon dipintore.
Da quel suo ritorno in Milano non ebbe mai più un istante, che fosse scompagnato della miseria; ridotto a sudare un tozzo di pane, tutto il dì lavorava a traduzioni d'opere voluminose fra cui la Storia delle repubbliche Italiane di Sismondi, e la Storia della Spagnuola inquisizione del Llorente che continuò fino alla totale abolizione del sant'ufficio 1820.
Le opinioni mostrate continuamente dal Ticozzi si vennero maggiormente confermando dalla natura delle opere volgarizzate, onde vedendosi mal sicuro, per sottrarsi ad ogni sorveglianza, stimò migliore abbandonare la Lombardia, e ritirarsi in Toscana colla famiglia, dove campò la vita traducendo e scrivendo assai cose di variatissimo argomento, accrescendo intanto i materiali già raccolti a Massa e Belluno per la compilazione d'un Dizionario degli architetti, pittori e intagliatori in rame che pubblicò poi a Milano nel 1830.
Passati quei primi timori e tornato nella capitale della Lombardia, 1823, scrisse varie opere, fra cui la continuazione dei Secoli della letteratura italiana, tradusse, compendiò, compose varj articoli di belle arti, la traduzione della Storia della pittura di Huard, e finalmente la continuazione della Storia di Milano del conte Pietro Verri, opera ultimata tre giorni prima della sua morte.
Chi volesse lodare esattezza e precisione in queste opere farebbe un'offesa alla verità, ma sarebbe oltraggio al merito del Ticozzi il non riconoscervi una mente vasta ed educata. Affezionato ad alcune antiche abitudini, fu assai intollerante d'ogni novità letteraria, ma non per questo sprezzatore del vero ingegno moderno.
Bisognoso della libertà dei campi, abbandonava la città il due settembre ritirandosi da suo nipote a Castello; ivi udiva la morte d'una sorella ed otto giorni dopo anch'egli, onorato di decente esequie, usciva dalla casa dell'avvocato Ticozzi per essere portato a riposare per sempre fra gli estinti. Io, legato in conoscenza con lui, giungeva appunto a Castello in quell'ora che mi si affacciò inaspettatamente il convoglio ove dormivano le fredde reliquie di Stefano Ticozzi.
Fu uomo d'indole gioviale, povero al sommo ma incapace d'ogni avvilimento, misero nelle esterne apparenze, ma ricco nelle maniere, nelle cortesie, nelle affezioni; di statura più presto piccola, che mezzana; di viso aperto e sempre eguale, affettuoso marito e tenero padre compartiva colla moglie e coi figli ogni giorno i pochi provecci delle sue continuate fatiche.